Vini di vignaioli, il gusto dei vini
- Scritto da Gabriele Pieroni
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- Pubblicato in La pancia del popolo
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Come una limpida giornata invernale spazzata dalla brezza che ti pizzica il naso. Non è forse così che dovrebbe essere un vino? Come quelle giornate piene di luce e di odore di neve, il freddo pungente e la lama di condensa che accarezza i capelli salendo verso il cielo.
La schiettezza inebriante di una bottiglia dovrebbe assomigliare di più a giornate come questa. Quelle in cui il brutto tempo lascia spazio ad un sole scalpitante, la cui brillantezza ci fa schermare gli occhi e inalare a pieni i polmoni la promessa di una primavera nascente.
Eppure, non sempre il vino riesce ad esprimere questa semplice, energica, doverosa sensazione di purezza, di infantile innocenza. Il 90% delle etichette che mi capita di assaggiare sono lunghe e complesse come i pomeriggi di luglio, quelli che non finiscono mai prima delle vacanze, corpose come le afe nei sottoboschi collinari, dense di abbracci calorosi e teatrali, perfette come i velluti del Carignano o statuarie come Sfingi, cariatidi a difesa di un inaccessibile Tempio di Bacco.
Per questo mi chiedo: c’è ancora un “Marzo” dei vini? Ci sono le primule tra le foglie avvizzite, le pozzanghere ghiacciate con i cristalli incrinati nel fango, ci sono ancora le energie folli e senza senso dei raggi di sole di febbraio che vogliono i Caraibi in pieno inverno, nel panorama enoico contemporaneo?
Sabato scorso sono stato a Vini di Vignaioli, a Milano, manifestazione dedicata alle etichetti biologiche, biodinamiche e naturali. La giornata, manco a farlo apposta, era febbricitante di sole. La location poi, aderiva come una muta ai vini che ospitava: una cascina fra palazzoni, una scheggia di campagna assediata dal cemento, un inno impazzito ad una campagna impossibile.
Così i vini, pazzeschi. Nel senso più letterale del termini. Vini sperimentali, vini stupefacenti, vini contadini, vini sfacciati, vini che non so che dire, vini così cosà. Ma tutti dannatamente, intrinsecamente "vini". Anche quelli peggio riusciti, anche quelli che assomigliavano a bibite, anche gli imperfetti, i torbidi, gli ibridi, gli instabili.
Ma tutti, proprio tutti, ti tagliavano la lingua quando entravano in bocca. Tutti, ma proprio tutti, ti spaccavano il palato, mentre deglutivi. Dove «tagliare» e «spaccare» non sono termini negativi, ma la gioiosa irruenza di chi vuole deluderti per poterti stupire. Di chi sa sfondare i tuoi orizzonti, aprendone di altri, più vasti, più limpidi.
Tutti, ma proprio tutti quei vini – buoni o meno buoni – denunciavano la loro folle, inebriante, succosa partecipazione al mondo naturale attraverso il collegamento al frutto della terra: l’uva matura. A Vini di Vignaioli, i vini avevano un gusto. Punto.
P.S. Non mi dilungo in dissertazioni sensoriali, né tantomeno nel sottolineare le differenze tra i produttori: l’esperienza è stata una sessione di degustazione inscindibile tra le etichette, una sorta un’emanazione plotiniana dell’Essere-Vino a cui tutti partecipavano, ognuno alla sua distanza particolare dalla Perfezione. Sono costretto però a descriverne almeno uno di questi vini, per caso o per destino, più vicino di altri all’ipostasi originale. Si tratta del Ruché di Castagnole Monferrato 2011 di Cascina Tavijn: non buono, buonissimo. Non semplice, semplicissimo. Con qualcosa che ti rimane dentro. Come un ricordo che non vuoi perdere mentre, inevitabilmente, svanisce.
Gabriele Pieroni
Scrive di cultura e cibo, meglio se cibo culturale o cultura edibile. Adora il Kebab (ebbene sì!) nella sue innumerevoli varianti. Per lui il vino è prima di tutto un alimento, e come tale deve essere beverino, fresco, piacevole e soprattutto, sano. Chi lo conosce sostiene che vorrebbe essere in grado di scrivere una Grande Narrazione. Per ora si accontenta di diventare un buon giornalista, un ottimo gourmet e un piacevole commensale. Per Wine Pass cura i contenuti del web e collabora alla stesura del Magazine cartaceo. Seguimi su Twitter: @gapieron
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